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sabato, 27 Luglio, 2024

«È straordinariamente importante insegnare al bambino che la disabilità è una condizione, nient’altro». Intervista al ricercatore e divulgatore Michele Mele.

Matematico, ricercatore, scrittore, speaker radiofonico, volontario. Michele Mele è ciò che gli americani definirebbero un «self-made man» con una sola particolarità: è gravemente ipovedente.

Cominciamo dal tuo legame con la Gran Bretagna, perché scrivi di musica folk e di calcio inglese su delle riviste specializzate britanniche e hai uno spazio radiofonico sull’emittente Black Dog Radio.

Sì, esatto. Ogni sabato alle 10.30 ore locali, ho un piccolo slot nel quale parlo ogni volta di un album diverso e lancio una traccia del disco.  È una web radio di una cittadina che si chiama Belper, nel Derbyshire, e che trasmette da Old Kings Head, uno dei mulini patrimonio Unesco. Poi scrivo per una rivista folk, recensisco dischi e realizzo interviste e parlo di calcio per un sito che si chiama Il calcio a Londra.

In realtà, fin da piccolo ho avuto una fascinazione per il mondo anglofono, da persona appartenente ad un gruppo di minoranza con una grave patologia della vista, non ho mai sopportato i pregiudizi e siccome il nostro sistema scolastico è ancora decisamente gentiliano e fortemente anglofobo, non ho mai condiviso certi commenti, una certa versione storica. Quindi ho cominciato a studiare la loro lingua, la loro storia, e, dal 2009 in poi ho iniziato ad esplorare l’Inghilterra. Ci vado quasi ogni anno e posso dire di aver scoperto un mondo molto diverso da com’è raccontato dai nostri giornali.

In Gran Bretagna le persone con disabilità vivono una maggiore inclusione perché le città sono in genere molto accessibili, e il Royal National Institute for the Blind ha creato tutta una serie d’iniziative per favorire l’integrazione e l’autonomia dei non vedenti/ipovedenti come ad esempio i contatori con l’assistente vocale, installati gratuitamente a casa, oppure il sistema per votare in autonomia, così come i test di gravidanza accessibili. C’è una grande attenzione verso i disabili e per questo s’investe nella ricerca.

Secondo te perché in Italia questo non avviene? È solo una questione politica oppure si tratta di un limite?

E’ certamente una questione di cultura che, tra l’altro, non riguarda solo l’Italia, ma l’intero mondo neolatino/mediterraneo. Per farsi un’idea della situazione basta cercare i dati sull’occupazione delle persone con patologie della vista, si verifica che esiste una netta cesura tra il mondo neolatino e quello germanico/anglosassone. 

Dicevi che fai parte di un gruppo di minoranza. Che cos’è il contesto disabilitante?
Ho trentuno anni, sono di Salerno, laureato in matematica, presso l’Università degli studi di Salerno, ho conseguito un dottorato a Napoli, e adesso lavoro a Benevento, presso l’Università del Sannio, dove mi occupo di ricerca su problemi di ottimizzazione combinatoria al Dipartimento di Ingegneria Informatica. Tutto questo nonostante sia nato con una forte eredodegenerazione retinico maculare, la situazione si è peraltro aggravata nel 2014, con il sorgere di una nuova patologia. Quindi sì, faccio parte di un gruppo di minoranza, peraltro nemmeno tanto piccola, perché il 15% della popolazione mondiale ha una disabilità e il 3% circa ha una patologia della vista. Per capirci meglio, circa una persona su trentaquattro ha problemi di vista, stiamo parlando di decine di milioni di persone nel mondo, eppure c’è tanta indifferenza e pregiudizio, che ho subito anch’io. Il mio professore di matematica al liceo era convinto che la materia non la potessi capire perché gravemente ipovedente, lo stesso per un’insegnante di latino e italiano, persuasa che io non potessi scrivere o conoscere bene la materia. Bene, ad oggi, ho conseguito una laurea scientifica, ho scritto un libro grazie al quale ho vinto un Oscar della letteratura, il premio città di Cattolica. Quindi chi aveva ragione?  Ma la vera domanda è: perché nonostante quei pregiudizi, sono riuscito ad affermarmi e realizzare quello che volevo?

Nel mio caso, il contesto familiare è stato inclusivo, non mi ha mai fatto sentire diverso. Ogni volta che esprimevo il desiderio di fare qualcosa, la mia famiglia non mi ha mai detto che non lo potessi fare perché ipovedente ma ha sempre cercato una soluzione. Atteggiamento che purtroppo non ritrovo in tanti genitori che al contrario tengono i figli confinati nel perimetro familiare. Ti dico un dato: a Salerno su 120 mila abitanti, i non vedenti sono centinaia, eppure ne vedi impiegati pochissimi, tutti gli altri dove sono? A casa, con la pensione d’invalidità, perché sono stati educati con l’idea che non possono fare diversamente. Questa è la condizione che tanti non vedenti vivono, magari finiscono la scuola dell’obbligo, e poi restano a casa, gli viene insegnato che il massimo a cui possono ambire sia un posto da centralinista.  Questo è il contesto disabilitante, un ambiente in cui non c’è inclusione e possibilità di scelta. Molti di loro erano bravi a scuola, sarebbero potuti diventare quello che volevano, bastava un po’ d’incoraggiamento, ma spesso è la famiglia in primis, ad ostacolare, chiudendo i figli sotto una campana di vetro per paura che il mondo possa ferirli. Ma vale la pena passare l’intera esistenza a commiserarsi? Sono dell’idea che l’autocommiserazione vada estirpata fin da piccoli e l’ho costatato anche nelle storie che ho raccontato nel mio libro.

È straordinariamente importante insegnare al bambino che la disabilità è una condizione, nient’altro.

È il contesto che crea la disabilità non un pugno di cellule in meno.

Come nasce il tuo saggio divulgativo “L’universo tra le dita”?

Essendo un matematico con una patologia della vista, conosco quelli che sono i pregiudizi che spesso allontanano i non vedenti e gli ipovedenti dalle discipline STEM. Risulta ancora molto diffusa questa immagine del matematico che scrive formule, dell’ingegnere che disegna i progetti, del chimico che gestisce con le mani le provette e guarda nei microscopi, quest’idea della scienza come insieme di materie completamente visive è sbagliata. Ma il pregiudizio è fortissimo, per molto è inconcepibile che un non vedente/ipovedente possa diventare medico, ingegnere… pregiudizio che ritorna anche nella vita sociale. In Italia soltanto il 6,8% degli individui maschi con patologie della vista (circa uno su tredici) ha una relazione nel corso della propria vita, gli altri sono emarginati in partenza perché il maschio alfa deve avere certe caratteristiche: deve dare un senso di protezione, portare lo stipendio a casa. Questo stereotipo della cultura maschilista, patriarcale, danneggia anche una fetta di uomini! Ritorna dunque fondamentale l’importanza di un contesto inclusivo, che favorisca non solo le minoranze, ma tutta la società.

Ritornando alla tua domanda, i pregiudizi sulla nostra minoranza ha fatto sì che fosse attuata una politica del collocamento mirato come unica soluzione, è vero che negli ultimi anni dei miglioramenti ci sono stati, ma non è abbastanza. Resta l’idea che “non si è mai visto” un medico, un matematico, un fisico, non vedente. Durante il lockdown ho iniziato a raccogliere nomi, storie, documenti relativi a scienziati non vedenti/ipovedenti del passato e del presente. Ho intervistato i viventi, almeno quelli che mi hanno risposto, e ho trovato documenti anche vecchi di secoli, risalendo al primo scienziato non vedente di sempre : Nicholas Saunderson, nato nel 1682, un secolo e mezzo prima del braille.  Per le mie ricerche mi sono avvalso del supporto di alcune istituzioni come il British Museum, l’Università di Cambridge e la Biblioteca del Congresso USA; così è nato L’Universo tra le dita.

Qual è l’obiettivo del saggio?

Si tratta di un saggio divulgativo in cui racconto storie di scienziati non vedenti/ipovedenti, sei figure del passato e quattro viventi, con l’obiettivo di abbattere questi pregiudizi. Se abbiamo questi grandi esempi del passato perché, oggi, diciamo ai nostri ragazzi “no, tu non puoi farlo”?

Quante menti brillanti abbiamo perso nel corso del tempo, per colpa di questo tipo di pregiudizi?

“L’Universo tra le Dita” narra la storia di quattro matematici, due chimici, due ingegneri, un medico e un entomologo. Sono storie appassionanti, racconto il loro vissuto, gli aneddoti e le scoperte di queste figure. Ho analizzato la loro vita, prima ancora che la loro opera scientifica, perché l’importante era far vedere come hanno fatto e qual è stato il contesto in cui si sono mossi.

Hanno trovato un contesto inclusivo? Se no, come l’hanno creato? Chi l’ha creato con loro?

In tutte le loro storie, piano piano le cose si dipanano, seguendo un piccolo filo conduttore, che è quello della fiducia, eliminando l’autocommiserazione e il pietismo, del coraggio, della costruzione di microcontesti inclusivi in cui questi grandi scienziati hanno potuto muoversi, lasciando un segno.

Il tuo libro sta girando molto nelle scuole, segno che i tempi sono maturi per compiere una rivoluzione?

Ho voluto impostare il testo con un registro molto semplice, proprio perché arrivi nelle scuole, e, infatti, un ragazzo di Salerno , tra l’altro un alunno del liceo dove  ho tanto sofferto a causa del contesto, l’ha usato come base per la sua tesina dell’esame di maturità e lo stesso è avvenuto per un ragazzo in provincia di Firenze per l’esame di terza media. L’obiettivo è ribaltare il parametro: tutti possono farcela, basta creare il giusto contesto.

Sei anche coordinatore del progetto “Accessibilità all’arte”

Il progetto “Accessibilità all’arte” è un’iniziativa del Touring club di cui sono coordinatore nazionale e coinvolge anche il Centro d’Ateneo SInAPSi dell’Università di Napoli Federico II e un’azienda inglese che crea i materiali. Il progetto consiste nel riprodurre, con un metodo scientifico, le opere bidimensionali come ad esempio i quadri, gli affreschi, gli arazzi, etc. È così che arte, matematica e chimica si uniscono. Io sono il responsabile della parte matematica, cioè dell’algoritmo che prende in input l’immagine, la scompone e la ricompone, lasciando soltanto i dettagli essenziali che ci dicono lo stile, l’importanza e il significato dell’opera. Questo progetto per la riproduzione di beni artistici bidimensionali è l’unico che esiste in Italia, è partito dalla Chiesa di Santa Maria de Lama nel centro storico di Salerno, e poi si è esteso in altre realtà sia in quelle promosse dal Touring Club, che da altri soggetti come al Parco archeologico di Paestum, al Santuario di Pompei e al Duomo di Salerno.

Tu sei un ricercatore in ottimizzazione combinatoria, quando hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?

Sin da piccolo per muovermi, per spostarmi, ho sempre dovuto geometrizzare lo spazio intorno a me. L’ho fatto da sempre, inconsciamente, questa pianificazione e ottimizzazione dei percorsi. Un lavoro continuo di astrazione e visione che mi ha portato a perseguire gli studi in matematica, poi, se vogliamo, c’è anche una predisposizione genetica perché mia madre è laureata in fisica e mia nonna era velocissima nel fare i calcoli a mente

Hai ideato anche un algoritmo per gli aeroporti. Di cosa si tratta?

Negli aeroporti internazionali ci sono delle regole severissime che devono essere rispettate quando le persone richiedono l’assistenza. Queste regole hanno a che fare con la lingua, con la persona che deve fornire assistenza e che deve essere unica per tutto il periodo di transizione nell’aeroporto, poi ci sono le regole sindacali dei lavoratori. Questi servizi sono organizzati, talvolta manualmente nei piccoli aeroporti, spendendo più risorse di quelle necessarie e offrendo un servizio che è inferiore allo standard richiesto. Alla luce di questo, ho scritto un modello matematico e un algoritmo che, in pochi decimi di secondo, può organizzare un’intera giornata di accompagnamenti, fino a duemila assistenze in un giorno, come capita nei grandi aeroporti internazionali, rispettando tutte le regole e offrendo un servizio ottimale ad un costo più basso rispetto a quello attualmente calcolato. Questo permette anche una migliore rotazione del personale e l’assunzione di personale con le competenze linguistiche compatibili con i passeggeri.

Il tuo algoritmo è stato implementato da qualche aeroporto?

Puoi immaginare che con l’attenzione che c’è per la disabilità dalle nostre parti, uscito l’articolo, ho contattato i maggiori aeroporti italiani, ma non si sono fatti più risentire.

I tuoi prossimi progetti?

Sta partendo un progetto di cui sono fondatore che si chiamerà “Science in braille”. È un progetto delle Nazioni Unite e del RASIT di Londra  che unisce otto scienziati non vedenti/ipovedenti in giro per il mondo per l’alfabetizzazione scientifica delle persone con patologia della vista e per creare una maggiore consapevolezza anche a livello ministeriale e governativo circa le potenzialità delle persone non vedenti/ipovedenti.

Matematico, ricercatore, scrittore, speaker radiofonico, volontario. Michele Mele è ciò che gli americani definirebbero un «self-made man» con una sola particolarità: è gravemente ipovedente.

Cominciamo dal tuo legame con la Gran Bretagna, perché scrivi di musica folk e di calcio inglese su delle riviste specializzate britanniche e hai uno spazio radiofonico sull’emittente Black Dog Radio.

Sì, esatto. Ogni sabato alle 10.30 ore locali, ho un piccolo slot nel quale parlo ogni volta di un album diverso e lancio una traccia del disco.  È una web radio di una cittadina che si chiama Belper, nel Derbyshire, e che trasmette da Old Kings Head, uno dei mulini patrimonio Unesco. Poi scrivo per una rivista folk, recensisco dischi e realizzo interviste e parlo di calcio per un sito che si chiama Il calcio a Londra.

In realtà, fin da piccolo ho avuto una fascinazione per il mondo anglofono, da persona appartenente ad un gruppo di minoranza con una grave patologia della vista, non ho mai sopportato i pregiudizi e siccome il nostro sistema scolastico è ancora decisamente gentiliano e fortemente anglofobo, non ho mai condiviso certi commenti, una certa versione storica. Quindi ho cominciato a studiare la loro lingua, la loro storia, e, dal 2009 in poi ho iniziato ad esplorare l’Inghilterra. Ci vado quasi ogni anno e posso dire di aver scoperto un mondo molto diverso da com’è raccontato dai nostri giornali.

In Gran Bretagna le persone con disabilità vivono una maggiore inclusione perché le città sono in genere molto accessibili, e il Royal National Institute for the Blind ha creato tutta una serie d’iniziative per favorire l’integrazione e l’autonomia dei non vedenti/ipovedenti come ad esempio i contatori con l’assistente vocale, installati gratuitamente a casa, oppure il sistema per votare in autonomia, così come i test di gravidanza accessibili. C’è una grande attenzione verso i disabili e per questo s’investe nella ricerca.

Secondo te perché in Italia questo non avviene? È solo una questione politica oppure si tratta di un limite?

E’ certamente una questione di cultura che, tra l’altro, non riguarda solo l’Italia, ma l’intero mondo neolatino/mediterraneo. Per farsi un’idea della situazione basta cercare i dati sull’occupazione delle persone con patologie della vista, si verifica che esiste una netta cesura tra il mondo neolatino e quello germanico/anglosassone. 

Dicevi che fai parte di un gruppo di minoranza. Che cos’è il contesto disabilitante?
Ho trentuno anni, sono di Salerno, laureato in matematica, presso l’Università degli studi di Salerno, ho conseguito un dottorato a Napoli, e adesso lavoro a Benevento, presso l’Università del Sannio, dove mi occupo di ricerca su problemi di ottimizzazione combinatoria al Dipartimento di Ingegneria Informatica. Tutto questo nonostante sia nato con una forte eredodegenerazione retinico maculare, la situazione si è peraltro aggravata nel 2014, con il sorgere di una nuova patologia. Quindi sì, faccio parte di un gruppo di minoranza, peraltro nemmeno tanto piccola, perché il 15% della popolazione mondiale ha una disabilità e il 3% circa ha una patologia della vista. Per capirci meglio, circa una persona su trentaquattro ha problemi di vista, stiamo parlando di decine di milioni di persone nel mondo, eppure c’è tanta indifferenza e pregiudizio, che ho subito anch’io. Il mio professore di matematica al liceo era convinto che la materia non la potessi capire perché gravemente ipovedente, lo stesso per un’insegnante di latino e italiano, persuasa che io non potessi scrivere o conoscere bene la materia. Bene, ad oggi, ho conseguito una laurea scientifica, ho scritto un libro grazie al quale ho vinto un Oscar della letteratura, il premio città di Cattolica. Quindi chi aveva ragione?  Ma la vera domanda è: perché nonostante quei pregiudizi, sono riuscito ad affermarmi e realizzare quello che volevo?

Nel mio caso, il contesto familiare è stato inclusivo, non mi ha mai fatto sentire diverso. Ogni volta che esprimevo il desiderio di fare qualcosa, la mia famiglia non mi ha mai detto che non lo potessi fare perché ipovedente ma ha sempre cercato una soluzione. Atteggiamento che purtroppo non ritrovo in tanti genitori che al contrario tengono i figli confinati nel perimetro familiare. Ti dico un dato: a Salerno su 120 mila abitanti, i non vedenti sono centinaia, eppure ne vedi impiegati pochissimi, tutti gli altri dove sono? A casa, con la pensione d’invalidità, perché sono stati educati con l’idea che non possono fare diversamente. Questa è la condizione che tanti non vedenti vivono, magari finiscono la scuola dell’obbligo, e poi restano a casa, gli viene insegnato che il massimo a cui possono ambire sia un posto da centralinista.  Questo è il contesto disabilitante, un ambiente in cui non c’è inclusione e possibilità di scelta. Molti di loro erano bravi a scuola, sarebbero potuti diventare quello che volevano, bastava un po’ d’incoraggiamento, ma spesso è la famiglia in primis, ad ostacolare, chiudendo i figli sotto una campana di vetro per paura che il mondo possa ferirli. Ma vale la pena passare l’intera esistenza a commiserarsi? Sono dell’idea che l’autocommiserazione vada estirpata fin da piccoli e l’ho costatato anche nelle storie che ho raccontato nel mio libro.

È straordinariamente importante insegnare al bambino che la disabilità è una condizione, nient’altro.

È il contesto che crea la disabilità non un pugno di cellule in meno.

Come nasce il tuo saggio divulgativo “L’universo tra le dita”?

Essendo un matematico con una patologia della vista, conosco quelli che sono i pregiudizi che spesso allontanano i non vedenti e gli ipovedenti dalle discipline STEM. Risulta ancora molto diffusa questa immagine del matematico che scrive formule, dell’ingegnere che disegna i progetti, del chimico che gestisce con le mani le provette e guarda nei microscopi, quest’idea della scienza come insieme di materie completamente visive è sbagliata. Ma il pregiudizio è fortissimo, per molto è inconcepibile che un non vedente/ipovedente possa diventare medico, ingegnere… pregiudizio che ritorna anche nella vita sociale. In Italia soltanto il 6,8% degli individui maschi con patologie della vista (circa uno su tredici) ha una relazione nel corso della propria vita, gli altri sono emarginati in partenza perché il maschio alfa deve avere certe caratteristiche: deve dare un senso di protezione, portare lo stipendio a casa. Questo stereotipo della cultura maschilista, patriarcale, danneggia anche una fetta di uomini! Ritorna dunque fondamentale l’importanza di un contesto inclusivo, che favorisca non solo le minoranze, ma tutta la società.

Ritornando alla tua domanda, i pregiudizi sulla nostra minoranza ha fatto sì che fosse attuata una politica del collocamento mirato come unica soluzione, è vero che negli ultimi anni dei miglioramenti ci sono stati, ma non è abbastanza. Resta l’idea che “non si è mai visto” un medico, un matematico, un fisico, non vedente. Durante il lockdown ho iniziato a raccogliere nomi, storie, documenti relativi a scienziati non vedenti/ipovedenti del passato e del presente. Ho intervistato i viventi, almeno quelli che mi hanno risposto, e ho trovato documenti anche vecchi di secoli, risalendo al primo scienziato non vedente di sempre : Nicholas Saunderson, nato nel 1682, un secolo e mezzo prima del braille.  Per le mie ricerche mi sono avvalso del supporto di alcune istituzioni come il British Museum, l’Università di Cambridge e la Biblioteca del Congresso USA; così è nato L’Universo tra le dita.

Qual è l’obiettivo del saggio?

Si tratta di un saggio divulgativo in cui racconto storie di scienziati non vedenti/ipovedenti, sei figure del passato e quattro viventi, con l’obiettivo di abbattere questi pregiudizi. Se abbiamo questi grandi esempi del passato perché, oggi, diciamo ai nostri ragazzi “no, tu non puoi farlo”?

Quante menti brillanti abbiamo perso nel corso del tempo, per colpa di questo tipo di pregiudizi?

“L’Universo tra le Dita” narra la storia di quattro matematici, due chimici, due ingegneri, un medico e un entomologo. Sono storie appassionanti, racconto il loro vissuto, gli aneddoti e le scoperte di queste figure. Ho analizzato la loro vita, prima ancora che la loro opera scientifica, perché l’importante era far vedere come hanno fatto e qual è stato il contesto in cui si sono mossi.

Hanno trovato un contesto inclusivo? Se no, come l’hanno creato? Chi l’ha creato con loro?

In tutte le loro storie, piano piano le cose si dipanano, seguendo un piccolo filo conduttore, che è quello della fiducia, eliminando l’autocommiserazione e il pietismo, del coraggio, della costruzione di microcontesti inclusivi in cui questi grandi scienziati hanno potuto muoversi, lasciando un segno.

Il tuo libro sta girando molto nelle scuole, segno che i tempi sono maturi per compiere una rivoluzione?

Ho voluto impostare il testo con un registro molto semplice, proprio perché arrivi nelle scuole, e, infatti, un ragazzo di Salerno , tra l’altro un alunno del liceo dove  ho tanto sofferto a causa del contesto, l’ha usato come base per la sua tesina dell’esame di maturità e lo stesso è avvenuto per un ragazzo in provincia di Firenze per l’esame di terza media. L’obiettivo è ribaltare il parametro: tutti possono farcela, basta creare il giusto contesto.

Sei anche coordinatore del progetto “Accessibilità all’arte”

Il progetto “Accessibilità all’arte” è un’iniziativa del Touring club di cui sono coordinatore nazionale e coinvolge anche il Centro d’Ateneo SInAPSi dell’Università di Napoli Federico II e un’azienda inglese che crea i materiali. Il progetto consiste nel riprodurre, con un metodo scientifico, le opere bidimensionali come ad esempio i quadri, gli affreschi, gli arazzi, etc. È così che arte, matematica e chimica si uniscono. Io sono il responsabile della parte matematica, cioè dell’algoritmo che prende in input l’immagine, la scompone e la ricompone, lasciando soltanto i dettagli essenziali che ci dicono lo stile, l’importanza e il significato dell’opera. Questo progetto per la riproduzione di beni artistici bidimensionali è l’unico che esiste in Italia, è partito dalla Chiesa di Santa Maria de Lama nel centro storico di Salerno, e poi si è esteso in altre realtà sia in quelle promosse dal Touring Club, che da altri soggetti come al Parco archeologico di Paestum, al Santuario di Pompei e al Duomo di Salerno.

Tu sei un ricercatore in ottimizzazione combinatoria, quando hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?

Sin da piccolo per muovermi, per spostarmi, ho sempre dovuto geometrizzare lo spazio intorno a me. L’ho fatto da sempre, inconsciamente, questa pianificazione e ottimizzazione dei percorsi. Un lavoro continuo di astrazione e visione che mi ha portato a perseguire gli studi in matematica, poi, se vogliamo, c’è anche una predisposizione genetica perché mia madre è laureata in fisica e mia nonna era velocissima nel fare i calcoli a mente

Hai ideato anche un algoritmo per gli aeroporti. Di cosa si tratta?

Negli aeroporti internazionali ci sono delle regole severissime che devono essere rispettate quando le persone richiedono l’assistenza. Queste regole hanno a che fare con la lingua, con la persona che deve fornire assistenza e che deve essere unica per tutto il periodo di transizione nell’aeroporto, poi ci sono le regole sindacali dei lavoratori. Questi servizi sono organizzati, talvolta manualmente nei piccoli aeroporti, spendendo più risorse di quelle necessarie e offrendo un servizio che è inferiore allo standard richiesto. Alla luce di questo, ho scritto un modello matematico e un algoritmo che, in pochi decimi di secondo, può organizzare un’intera giornata di accompagnamenti, fino a duemila assistenze in un giorno, come capita nei grandi aeroporti internazionali, rispettando tutte le regole e offrendo un servizio ottimale ad un costo più basso rispetto a quello attualmente calcolato. Questo permette anche una migliore rotazione del personale e l’assunzione di personale con le competenze linguistiche compatibili con i passeggeri.

Il tuo algoritmo è stato implementato da qualche aeroporto?

Puoi immaginare che con l’attenzione che c’è per la disabilità dalle nostre parti, uscito l’articolo, ho contattato i maggiori aeroporti italiani, ma non si sono fatti più risentire.

I tuoi prossimi progetti?

Sta partendo un progetto di cui sono fondatore che si chiamerà “Science in braille”. È un progetto delle Nazioni Unite e del RASIT di Londra  che unisce otto scienziati non vedenti/ipovedenti in giro per il mondo per l’alfabetizzazione scientifica delle persone con patologia della vista e per creare una maggiore consapevolezza anche a livello ministeriale e governativo circa le potenzialità delle persone non vedenti/ipovedenti.

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