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venerdì, 26 Aprile, 2024

Leandro Alberti tra Calabria e Basilicata nel 1525

Lasciando stare l’arabo Edrisi, che durante il regno dei Normanni avrà senza meno girovagato per le terre meridionali onde imbastire la sua nota opera geografica, una primaria luce di varia descrizione ricavata da una ricognizione diretta si evidenzia col bolognese Leandro Alberti, umanista frate domenicano, che per conto del suo Ordine è stato in Calabria nel 1525 e appresso in Sicilia. La sua fatica, “Descrittione di tutta Italia”, che ha avuto presenti “l’Italia illustrata” di Flavio Biondo e “Il Dittamondo” di Fazio degli Uberti, pur risultando infarcita di citazioni classiche e legami con il lavoro del geografo greco-romano Strabone, offre squarci interessanti sulla regione. Di questa egli tiene in particolar modo a magnificare il territorio, che dice ricco di ogni ben di Dio. Alla metà del ‘500, lo rivelano tra tante le documentazioni fornite dal Galasso, la Calabria si evidenziava per la prosperità, anche se similari esaltazioni potranno provenire da evo più remoto.

L’Alberti ha visitato, tra l’altro, la Piana di Gioia e aree limitrofe, agli inizi di marzo e al ritorno dalla Sicilia. Il primo paese è stato Rosarno, dove presumibilmente sarà arrivato via mare. Rosarno, «castello buono, e grasso paese», godeva della presenza di giardini doviziosi di aranci, limoni e altri alberi fruttiferi, ma aveva una caratteristica sua. Le pareti delle case si offerivano coperte di rose. Di simili fiori se ne trovavano in gran quantità, tanto ch’egli ha stimato che il nome possa essere derivato da siffatta tipicità. Addirittura «appareano da ogni lato per quei campi fiorite le rose di damaschino, dalle quali spirava soavissimo odore, con nostra gran dilettazione». Dopo Gioia, nella cui zona, coltivata a dovere, si offrivano il grano e altre biade, in lontananza si scorgevano Polistina «castello ben pieno di popolo» e in alto sul monte il castello Santo Giorgio. Indi, si affacciava la «Città di Terra Nuova, molto popolosa».

Da Gioia non poteva non adocchiarsi Palmi, ma a riguardo l’Alberti ha accennato alla contrada omonima: «Poscia da Gioia otto miglia lontano si scorge Palma contrada». In verità, l’abitato c’era. Però, data la sua condizione di casale di Seminara, la popolazione doveva riuscire piuttosto sparuta soprattutto a motivo del pericolo rappresentato dai predoni turcheschi. È noto, infatti, che appena un paio di anni dopo, nel 1537, il pirata Dragut l’abbia assaltato di notte. In una successiva incursione, nel 1549, però lo spietato musulmano veniva a lasciarci le penne e a salvarsi a stento con la fuga, ma portandosi dietro la memoria di molte uccisioni e danni. E non è a nostra conoscenza cosa sia potuto accadere antecedentemente! Palma si configura feudo o casale di Seminara già in epoca aragonese, come appare chiaro da un apprezzo del 1466.

I sudditi della Mezzaluna, è indubbio, avranno recato parecchio nocumento alle strutture di Palma se nel 1564 il duca di Seminara Carlo Spinelli l’ha ricostruita mutandole il nome in Carlopoli, in successione perso a favore della primitiva denominazione. Sia nel 1545 che nel 1561 i documenti, peraltro, danno presenti 508 fuochi cioè comprensivi di abitanti stimati tra i 2.032 e 2.540, un terzo circa di quanto si segnalava per la più grande Seminara. Di tali dati reiterati nelle due rilevazioni non sappiamo però la reale consistenza.

Dopo Gioia si varcava il fiume San Leo e si giungeva a Seminara«ben’abitato castello»e nelle more al viaggiatore non sarà riuscito discaro non riflettere sulla decisiva battaglia combattuta alquanti anni prima nelle sue vicinanze tra Angioini e Aragonesi. Ancora un luogo «tutto lavorato, e fertile, e pieno di vigne, e d’alberi, producevoli di saporiti frutti. Assai frumento si cava di esso paese con altre biade». Da Seminara via per Solano e, di conserva, per le ulteriori plaghe[1]. È da aggiungere che nell’Alberti l’interesse descrittivo è rivolto, oltre che alla Piana, all’intera circoscrizione calabrese. Ecco il finale riservato alla Calabria avanti di spostarsi in Puglia:

«A Fiumara di Muoro piegasi a man sinistra l’Appennino, et trascorre a Reggio, et poi finisce a Leucopetra. Poscia scendendo da Fiumara di Muoro alla Catona, si passa per una molto dilettevole vallicella da ogni lato piena di vigne, et di fruttiferi alberi, et singolarmente d’aranci, et Limoni. Per la quale passa un picciolo fiume di chiara acqua, et trascorre insieme con detta vallicella tre miglia insino al lito del mare, ove è la Catona, et quivi entra nel mare. Et così ho finito la Calabria, tanto fra terra, come appresso il Mare; certamente bella, et buona Regione»[1].

Leandro Alberti afferma di essere passato in Calabria nel 1525 in compagnia di mastro Francesco Ferrarese generale dell’ordine dei Predicatori provenendo dalla Basilicata[2]. Qui aveva messo piede iniziando da Rocca Imperiale, importante baluardo eretto da Federico II di Svevia e allora considerato in terra lucana, fortificato da Alfonso II d’Aragona. Partitosi, eccolo spedito su per i monti a incontrare i castelli di Veleta (0ggi Nova Siri) e Nucara (Nocara), quindi Cana (?), Ruino (oggi Castelgrande) e Franca Villa (Francavilla in Sinni). Qui era la sede di un “sontuoso monastero di certosini”. Alle radici del monte si avvertiva Noia (oggi Noepoli), ov’era la foce del fiume Silo (è il Sile) e sulla relativa costa apparivano le rovine di Pelicore (Policoro) presso le quali si offriva Rocchetta “dalla quale si scoprono i luoghi vicini, ove ne’ tempi de i ladroni, et Pirati sogliono soggiornar le guardie poste da i Signori del paese, acciò non siano saccheggiati, et abbruciati da quelli”. Tra i monti (ci troviamo nell’odierno Parco del Pollino) e a 15 miglia dal mare e due dal fiume Acri si snodava una lunga teoria di paesini: Sant’Arcangelo, Rocca Nuova, Vaturano (Caturano) “habitatione de’ Greci”, Castel Nuovo (Castel Nuovo di Sant’Andrea), Episcopia, Carinia (?), Teania, Chiaramonte (Chiaromonte), Senesi (Senise), Collivali (?) e Torse (Tursi). Indi si vedevano le rovine di Petrola (Petralia) accosto al fiume Salandra (Salandrella). Tramanda il buon Leandro: “Accresce tanto questo fiume nel tempo della pioggia, che per la grande abbondanza dell’acqua, che scende da amendui i lati da i monti, uscendo fuori dal suo letto, inonda tutta la valle, che pare un golfo di profondo mare, come io vidi nel 1525”.

Dopo Gracco, sotto di cui passa il Salandrella, si distendevano S. Mauro (San Mauro Forte), Acremira (?) e Cantiano (Cantina di Venosa?) (presso il fiume Valsento (Val Basento?), il castello di Ferrandina eretto da Ferrante figlio di Alfonso II, Veggiano (Viggiano) “sommerso, et rovinato dal terremoto” mentre su verso i monti svettava Pestice (Peschici?) castello. Nemmeno il Valsento scherzava in fatto di pericolosità per chi vi transitava. Si presentava al viandante “anche lui pien d’acqua ne’ tempi della pioggia, et del verno, come son tutti gli altri di questi paesi, per l’acque che scendono da ogni lato de i circostanti monti. Si possono valicare sopra i ponti di legno da gli abitatori del paese Alcune volte i ponti vengono portati via e si rimedia come si può come io ho esperimentato”. Ecco un’altra costruzione: Torre di Mare “disabitata con alcune casuzze abitate da persone povere”. Si trattava di una torre “fatta per tener buone guardie nei tempi dei pirati” che taluni stimavano trovarsi nel luogo in cui prosperava l’antica Turij forse perché sviati dal nome, ma invero c’erano Strabone e Plinio a testimoniare che i Turii vivevano tra due fiumi. Si prospettava poi una “bella, et larga pianura” nella quale si ritrovava per l’addietro Metaponto, di cui al presente s’intravedevano “alcuni rottami di pietre cotte con la terra negra”. Vi si seminava soltanto il grano. Tramanda l’Alberti: “Dopo 4 miglia e vicino al mare sopra un luogo alquanto elevato, scorgonsi venti altre, et grosse colonne fi marmo poste in due ordini, ove (secondo il volgo) era la scola d’Archita”. Era esattamente qui, risulterà poi palese, che bisognava ricercare le vetustà della scomparsa Metaponto.

E ancora un’ampia serie di edificazioni: Bernalda castello (Castello di Bernalda) sopra i monti, alle radici Pomarco (Pomarico) e nelle alture Milionico (Miglionico) di pertinenza del principe di Bisignano. Si continua con Grotolo (Grottole), un castello che si apparteneva dal duca di Tragetto, Grassani (Grassano) e un miglio vicino al Bradano monte Scaglioso (Montescaglioso). Il castello era tra i fiumi Bradano e Limicello mentre sulla marina si specchiava Tricarico “molto bella, et honorevole città” di spettanza sempre del principe di Bisignano. Ci si spinge verso il fiume Bradano di molta acqua nell’inverno, che si poteva oltrepassare col ponte di legno allestito sopra Montepeloso (oggi Irsina) dal duca di Tragetto predetto e Gravina ducato posseduto a lungo dagli Orsini, Castello di Alta Villa reputato al posto di Petelia. In sequenza una “Bella valle” ove si manifestava Matera già chiamata Acherontia “molto ricca, et piena di popolo”, che si differenziava in due borghi, uno sito in due profonde valli il secondo in alto. In Matera vigeva una curiosa usanza, la cui esposizione lasciamo allo stesso interessato viaggiatore. Scrive questi che “Ella è molto ricca, et piena di popolo. Giace una parte di essa in due profonde valli, et la terza parte sopra gli alti luoghi, che signoreggiano all’antidette valli. Il che dà occasione a gli habitatori del luogo di far parere (a suo piacere) una bella simiglianza del Ciel sereno di chiare, splendenti Stelle ornato. Così ordinano tanto spettacolo secondo che piace a i maggiori della città comanda il banditore, che ciascuna famiglia di quelle due valli tramontato il Sole; incontinente dimostrino il lume avanti le loro case, dato il segno consueto. Onde così eseguito, pare a quelli, che son nella 3. parte della città sopra il colle, di vedere sotto piedi il Cielo pieno di vaghe Stelle distinte in diverse figure, sì come sono finte da gli Astrologhi, cioè le sette Trione, Hiade, Pleiade, la Corona di Ariadna, et simili altre figure, come etiandio descrive il Razzano. In vero egli è questo un curioso spettacolo da vedere, et anche udirlo narrare[3].

L’Alberti è nato a Bologna nel 1479 e ha fatto il suo ingresso tra i domenicani nel 1493. Giovanissimo, ha approntato già un rilevante studio, il “De viris illustribus Ordinis Praedicatorum”, ch’è andato alle stampe nel 1517. Vissuto in vari conventi, è morto nel 1551 probabilmente in quello di Bologna. L’iniziale edizione della “Descrittione” è del 1550. La sua immagine, firmata Thom. Brix., è tratta da quella susseguente del 1551.

Palmi di E. Cheney

Matera

 


[1] Fra Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia Et Isole pertinenti ad essa, in Venetia Appresso Paolo Ugolino 1596, pp. 201-210. In tempi recenti è stato riproposto all’attenzione degli studiosi da Gustavo Valente (Leandro Alberti in Calabria, TAC, Cosenza 1968). Fiumara di Muoro è, come ben si comprende, Fiumara di Muro.

[2] Alberti, Descrittione…, p. 210.

[3] Ivi, ed. MDC, in Bologna, per Anselmo Giaccarelli, pp. 202-203.

Lasciando stare l’arabo Edrisi, che durante il regno dei Normanni avrà senza meno girovagato per le terre meridionali onde imbastire la sua nota opera geografica, una primaria luce di varia descrizione ricavata da una ricognizione diretta si evidenzia col bolognese Leandro Alberti, umanista frate domenicano, che per conto del suo Ordine è stato in Calabria nel 1525 e appresso in Sicilia. La sua fatica, “Descrittione di tutta Italia”, che ha avuto presenti “l’Italia illustrata” di Flavio Biondo e “Il Dittamondo” di Fazio degli Uberti, pur risultando infarcita di citazioni classiche e legami con il lavoro del geografo greco-romano Strabone, offre squarci interessanti sulla regione. Di questa egli tiene in particolar modo a magnificare il territorio, che dice ricco di ogni ben di Dio. Alla metà del ‘500, lo rivelano tra tante le documentazioni fornite dal Galasso, la Calabria si evidenziava per la prosperità, anche se similari esaltazioni potranno provenire da evo più remoto.

L’Alberti ha visitato, tra l’altro, la Piana di Gioia e aree limitrofe, agli inizi di marzo e al ritorno dalla Sicilia. Il primo paese è stato Rosarno, dove presumibilmente sarà arrivato via mare. Rosarno, «castello buono, e grasso paese», godeva della presenza di giardini doviziosi di aranci, limoni e altri alberi fruttiferi, ma aveva una caratteristica sua. Le pareti delle case si offerivano coperte di rose. Di simili fiori se ne trovavano in gran quantità, tanto ch’egli ha stimato che il nome possa essere derivato da siffatta tipicità. Addirittura «appareano da ogni lato per quei campi fiorite le rose di damaschino, dalle quali spirava soavissimo odore, con nostra gran dilettazione». Dopo Gioia, nella cui zona, coltivata a dovere, si offrivano il grano e altre biade, in lontananza si scorgevano Polistina «castello ben pieno di popolo» e in alto sul monte il castello Santo Giorgio. Indi, si affacciava la «Città di Terra Nuova, molto popolosa».

Da Gioia non poteva non adocchiarsi Palmi, ma a riguardo l’Alberti ha accennato alla contrada omonima: «Poscia da Gioia otto miglia lontano si scorge Palma contrada». In verità, l’abitato c’era. Però, data la sua condizione di casale di Seminara, la popolazione doveva riuscire piuttosto sparuta soprattutto a motivo del pericolo rappresentato dai predoni turcheschi. È noto, infatti, che appena un paio di anni dopo, nel 1537, il pirata Dragut l’abbia assaltato di notte. In una successiva incursione, nel 1549, però lo spietato musulmano veniva a lasciarci le penne e a salvarsi a stento con la fuga, ma portandosi dietro la memoria di molte uccisioni e danni. E non è a nostra conoscenza cosa sia potuto accadere antecedentemente! Palma si configura feudo o casale di Seminara già in epoca aragonese, come appare chiaro da un apprezzo del 1466.

I sudditi della Mezzaluna, è indubbio, avranno recato parecchio nocumento alle strutture di Palma se nel 1564 il duca di Seminara Carlo Spinelli l’ha ricostruita mutandole il nome in Carlopoli, in successione perso a favore della primitiva denominazione. Sia nel 1545 che nel 1561 i documenti, peraltro, danno presenti 508 fuochi cioè comprensivi di abitanti stimati tra i 2.032 e 2.540, un terzo circa di quanto si segnalava per la più grande Seminara. Di tali dati reiterati nelle due rilevazioni non sappiamo però la reale consistenza.

Dopo Gioia si varcava il fiume San Leo e si giungeva a Seminara«ben’abitato castello»e nelle more al viaggiatore non sarà riuscito discaro non riflettere sulla decisiva battaglia combattuta alquanti anni prima nelle sue vicinanze tra Angioini e Aragonesi. Ancora un luogo «tutto lavorato, e fertile, e pieno di vigne, e d’alberi, producevoli di saporiti frutti. Assai frumento si cava di esso paese con altre biade». Da Seminara via per Solano e, di conserva, per le ulteriori plaghe[1]. È da aggiungere che nell’Alberti l’interesse descrittivo è rivolto, oltre che alla Piana, all’intera circoscrizione calabrese. Ecco il finale riservato alla Calabria avanti di spostarsi in Puglia:

«A Fiumara di Muoro piegasi a man sinistra l’Appennino, et trascorre a Reggio, et poi finisce a Leucopetra. Poscia scendendo da Fiumara di Muoro alla Catona, si passa per una molto dilettevole vallicella da ogni lato piena di vigne, et di fruttiferi alberi, et singolarmente d’aranci, et Limoni. Per la quale passa un picciolo fiume di chiara acqua, et trascorre insieme con detta vallicella tre miglia insino al lito del mare, ove è la Catona, et quivi entra nel mare. Et così ho finito la Calabria, tanto fra terra, come appresso il Mare; certamente bella, et buona Regione»[1].

Leandro Alberti afferma di essere passato in Calabria nel 1525 in compagnia di mastro Francesco Ferrarese generale dell’ordine dei Predicatori provenendo dalla Basilicata[2]. Qui aveva messo piede iniziando da Rocca Imperiale, importante baluardo eretto da Federico II di Svevia e allora considerato in terra lucana, fortificato da Alfonso II d’Aragona. Partitosi, eccolo spedito su per i monti a incontrare i castelli di Veleta (0ggi Nova Siri) e Nucara (Nocara), quindi Cana (?), Ruino (oggi Castelgrande) e Franca Villa (Francavilla in Sinni). Qui era la sede di un “sontuoso monastero di certosini”. Alle radici del monte si avvertiva Noia (oggi Noepoli), ov’era la foce del fiume Silo (è il Sile) e sulla relativa costa apparivano le rovine di Pelicore (Policoro) presso le quali si offriva Rocchetta “dalla quale si scoprono i luoghi vicini, ove ne’ tempi de i ladroni, et Pirati sogliono soggiornar le guardie poste da i Signori del paese, acciò non siano saccheggiati, et abbruciati da quelli”. Tra i monti (ci troviamo nell’odierno Parco del Pollino) e a 15 miglia dal mare e due dal fiume Acri si snodava una lunga teoria di paesini: Sant’Arcangelo, Rocca Nuova, Vaturano (Caturano) “habitatione de’ Greci”, Castel Nuovo (Castel Nuovo di Sant’Andrea), Episcopia, Carinia (?), Teania, Chiaramonte (Chiaromonte), Senesi (Senise), Collivali (?) e Torse (Tursi). Indi si vedevano le rovine di Petrola (Petralia) accosto al fiume Salandra (Salandrella). Tramanda il buon Leandro: “Accresce tanto questo fiume nel tempo della pioggia, che per la grande abbondanza dell’acqua, che scende da amendui i lati da i monti, uscendo fuori dal suo letto, inonda tutta la valle, che pare un golfo di profondo mare, come io vidi nel 1525”.

Dopo Gracco, sotto di cui passa il Salandrella, si distendevano S. Mauro (San Mauro Forte), Acremira (?) e Cantiano (Cantina di Venosa?) (presso il fiume Valsento (Val Basento?), il castello di Ferrandina eretto da Ferrante figlio di Alfonso II, Veggiano (Viggiano) “sommerso, et rovinato dal terremoto” mentre su verso i monti svettava Pestice (Peschici?) castello. Nemmeno il Valsento scherzava in fatto di pericolosità per chi vi transitava. Si presentava al viandante “anche lui pien d’acqua ne’ tempi della pioggia, et del verno, come son tutti gli altri di questi paesi, per l’acque che scendono da ogni lato de i circostanti monti. Si possono valicare sopra i ponti di legno da gli abitatori del paese Alcune volte i ponti vengono portati via e si rimedia come si può come io ho esperimentato”. Ecco un’altra costruzione: Torre di Mare “disabitata con alcune casuzze abitate da persone povere”. Si trattava di una torre “fatta per tener buone guardie nei tempi dei pirati” che taluni stimavano trovarsi nel luogo in cui prosperava l’antica Turij forse perché sviati dal nome, ma invero c’erano Strabone e Plinio a testimoniare che i Turii vivevano tra due fiumi. Si prospettava poi una “bella, et larga pianura” nella quale si ritrovava per l’addietro Metaponto, di cui al presente s’intravedevano “alcuni rottami di pietre cotte con la terra negra”. Vi si seminava soltanto il grano. Tramanda l’Alberti: “Dopo 4 miglia e vicino al mare sopra un luogo alquanto elevato, scorgonsi venti altre, et grosse colonne fi marmo poste in due ordini, ove (secondo il volgo) era la scola d’Archita”. Era esattamente qui, risulterà poi palese, che bisognava ricercare le vetustà della scomparsa Metaponto.

E ancora un’ampia serie di edificazioni: Bernalda castello (Castello di Bernalda) sopra i monti, alle radici Pomarco (Pomarico) e nelle alture Milionico (Miglionico) di pertinenza del principe di Bisignano. Si continua con Grotolo (Grottole), un castello che si apparteneva dal duca di Tragetto, Grassani (Grassano) e un miglio vicino al Bradano monte Scaglioso (Montescaglioso). Il castello era tra i fiumi Bradano e Limicello mentre sulla marina si specchiava Tricarico “molto bella, et honorevole città” di spettanza sempre del principe di Bisignano. Ci si spinge verso il fiume Bradano di molta acqua nell’inverno, che si poteva oltrepassare col ponte di legno allestito sopra Montepeloso (oggi Irsina) dal duca di Tragetto predetto e Gravina ducato posseduto a lungo dagli Orsini, Castello di Alta Villa reputato al posto di Petelia. In sequenza una “Bella valle” ove si manifestava Matera già chiamata Acherontia “molto ricca, et piena di popolo”, che si differenziava in due borghi, uno sito in due profonde valli il secondo in alto. In Matera vigeva una curiosa usanza, la cui esposizione lasciamo allo stesso interessato viaggiatore. Scrive questi che “Ella è molto ricca, et piena di popolo. Giace una parte di essa in due profonde valli, et la terza parte sopra gli alti luoghi, che signoreggiano all’antidette valli. Il che dà occasione a gli habitatori del luogo di far parere (a suo piacere) una bella simiglianza del Ciel sereno di chiare, splendenti Stelle ornato. Così ordinano tanto spettacolo secondo che piace a i maggiori della città comanda il banditore, che ciascuna famiglia di quelle due valli tramontato il Sole; incontinente dimostrino il lume avanti le loro case, dato il segno consueto. Onde così eseguito, pare a quelli, che son nella 3. parte della città sopra il colle, di vedere sotto piedi il Cielo pieno di vaghe Stelle distinte in diverse figure, sì come sono finte da gli Astrologhi, cioè le sette Trione, Hiade, Pleiade, la Corona di Ariadna, et simili altre figure, come etiandio descrive il Razzano. In vero egli è questo un curioso spettacolo da vedere, et anche udirlo narrare[3].

L’Alberti è nato a Bologna nel 1479 e ha fatto il suo ingresso tra i domenicani nel 1493. Giovanissimo, ha approntato già un rilevante studio, il “De viris illustribus Ordinis Praedicatorum”, ch’è andato alle stampe nel 1517. Vissuto in vari conventi, è morto nel 1551 probabilmente in quello di Bologna. L’iniziale edizione della “Descrittione” è del 1550. La sua immagine, firmata Thom. Brix., è tratta da quella susseguente del 1551.

Palmi di E. Cheney

Matera

 


[1] Fra Leandro Alberti, Descrittione di tutta l’Italia Et Isole pertinenti ad essa, in Venetia Appresso Paolo Ugolino 1596, pp. 201-210. In tempi recenti è stato riproposto all’attenzione degli studiosi da Gustavo Valente (Leandro Alberti in Calabria, TAC, Cosenza 1968). Fiumara di Muoro è, come ben si comprende, Fiumara di Muro.

[2] Alberti, Descrittione…, p. 210.

[3] Ivi, ed. MDC, in Bologna, per Anselmo Giaccarelli, pp. 202-203.

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