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venerdì, 29 Marzo, 2024

Arrivi e partenze

Una piccola comunità può resistere se chi resta riesce a dare un senso alla sua permanenza. R e P si interrogano sulle loro scelte relative alla fuga e alla possibilità di rimanere all’interno della loro comunità.

R: Secondo te ci vuole più coraggio a restare o a lasciar andare? È difficile scegliere. Come quando sei in una relazione complicata, qual è la scelta che implica più coraggio? Non mi dire “essere se stessi” perché non vale.

P: Ricordi l’intervento di quel giornalista, lo scorso sabato, alla presentazione del nuovo blog? Disse che la cosa più importante è avere coraggio. Dopotutto chi decide di andare via probabilmente sta compiendo un’azione di fuga premeditata da tempo, paradossalmente avrebbe molto più coraggio se rimanesse.

R: Hai mai pensato che forse la cosa giusta sarebbe stata quella di rimanere?

P: Sinceramente? No. Perché rimanere? Cosa c’è in quel posto? Cosa può offrirmi? Che futuro potrò mai avere in un luogo privo di stimoli?

R: Privo di stimoli? Non credo che io, te e altri milioni di ragazzi abbiamo deciso di abbandonare la nostra realtà perché fosse priva di stimoli. L’abbiamo fatto per moda, necessità, sopravvivenza, egoismo.

P: In quel caso è un dovere essere egoisti. Se non hai una motivazione forte che ti leghi alle tue radici, perché rimanere? Perché pensare alle tremila persone che per 18 anni non hanno fatto altro che parlare di te, invece che con te? È asfissiante.

R: Tu invece, hai mai provato a conoscere fino in fondo le storie di quelle persone? Hai mai provato a pensare perché abbiano deciso di rimanere e di lasciar perdere la voglia di fuggire?

P: No, non l’ho mai fatto, e non credo che, se lo avessi fatto, avrei cambiato la mia idea. Andare fuori è l’unico modo che ho avuto e che ho per riuscire ad esprimere la mia identità, chi sono, che faccio e cosa voglio.

R: Sai che su Facebook ho letto una frase che mi ha fatto riflettere? E non è la solita citazione di Bukowski sulla bellezza interiore a cui non crede nemmeno lui. La citazione è di “Rabbia” di Chuck Palahniuk e recita: “Il motivo principale per cui la gente se ne va dai paesini di provincia […] è perché così poi puoi sognare di tornarci. E il motivo per cui chi resta è per sognare di andarsene. Con questo Rant voleva dire che nessuno è felice. Da nessuna parte.”

P: Per quanto mi riguarda non ha senso riprendere frasi dagli autori che parlano dei paesi di provincia, come quella di Cesare Pavese ricondivisa da tutti i fuorisede che si accingono ad andare via, fuori dal proprio paesino: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via…” Io non condivido queste parole. Non ho scelto io di nascere qui, il mio mondo non ha barriere, perché dovrei limitare la mia voglia di varcare la soglia? Io appartengo a ciò a cui voglio appartenere.

R: Lo sai che l’altro giorno ho aperto su Instagram una diretta in cui Michela Murgia e Chiara Valerio presentavano il libro di Mario Desiati, “Spatriati”? Stavano affrontando il tema della provincia. A un certo punto Murgia afferma: “Tu puoi uscire dalla provincia, ma la provincia non potrà mai uscire da te.” Che è una frase banalissima, ma è la verità. I nostri gesti, le nostre azioni, i nostri occhi si sono impregnati di abitudini e situazioni legate al nostro piccolo gruppo sociale, e per quanto tu possa essere trasgressivo e al di fuori dalle regole, la tua base sarà sempre quella, che non è una condanna. Ma un punto di partenza. Poi una cosa che non capisco di quello che dici è: Voglio uscire, andare fuori. Ma fuori da dove? L’hai detto tu: i confini sono delle costruzioni immaginarie dell’uomo per delimitare degli spazi, tu non ce li hai. Non è varcando una regione o uno stato che ti porterà a definirti, la definizione del tuo io dipende dalle cose che fai, da quelle che leggi e da quelle che vedi.

P: Non pensi che, però, uscendo da qui, abbiamo avuto l’occasione di conoscere e capire realtà che non avremmo mai considerato?

R: Questo è un dato di fatto, ma l’apertura mentale non è direttamente proporzionale alla scelta di vivere fuori. È vero, hai la possibilità di vedere di più, ma accettare e condividere la diversità non è automatico.

P: Potrei essere d’accordo, però credo che rimanere non debba essere una costrizione e non debba costituire un senso di colpa. La mia identità si è formata per un certo periodo in un posto in cui non ho avuto la possibilità di scegliere, quindi è legittimo che a un certo punto io abbia la voglia di crearmi uno spazio mio, deciso da me.

R: Pensala così: il posto in cui sei nato è una delle tue identità, ognuno di noi ne ha mille, nessuno è mai sempre uguale a sé stesso, tutti cambiano in base alle proprie esperienze. Perché negare una parte di te? Il fatto che tu abbia lasciato qualcosa, anche la più piccola, un ricordo, un’azione, nessuno può cancellarlo, forse bisogna solo accettarlo. Un po’ come quando ti capita di fare un tatuaggio da imbecille a quindici anni: a un certo punto ti vergogni, però poi realizzi che quel gesto rappresenta un periodo della tua vita, di divertimento magari, di cose superficiali, però esiste.

P: Va bene, forse hai ragione, ma allora perché dovremmo rimanere? Una volta accettata la mia origine, al di là di tutte le frasi auliche di questo mondo, io devo fare ciò che sento. E la mia serenità non può essere danneggiata da circostanze ormai insopportabili. Ognuno di noi ha una storia che nessuna frase potrà mai rappresentare.

R: Non lo so, a volte mi interrogo su ciò che avrei potuto fare e su quello che non faccio. Si tratta solo di essere nel nostro caso, non di agire, perché non ci crediamo fino in fondo.

P: Si, il punto è che rimanere non ha senso se non è funzionale: a cosa serve essere 3001 invece di 3000 se quel numero in più serve solo ad occupare spazio?

R: Stavo proprio leggendo un libro di Jonathan Safran Foer, “Possiamo salvare il mondo prima di cena”: un capitolo si intitola Be leaving, believing, be living (Andarsene, crederci, essere vivi) e racconta dello sterminio degli ebrei in relazione alla conoscenza e alla consapevolezza. “Come dice il regista Claude Lanzmann nel prologo a Il rapporto Karski, il suo documentario sulla missione di Karski in America: << […] A Raymond Aron, che era fuggito a Londra, fu chiesto se non fosse a conoscenza di quello che stava succedendo all’epoca nell’Est. Rispose: lo sapevo ma non ci credevo, e siccome non ci credevo, non lo sapevo.” Sto pensando che, quindi, rimanere deve avere un senso. Se non ci credo abbastanza, è meglio trovare la propria missione altrove.

P: Si, troppo facile dire: rimanete, perché andate via? Ma chi fa queste domande, si è mai chiesto cosa stia facendo lì? In quella piccola comunità? Come contribuisca a valorizzarla? Se resti e non ci credi, hai la stessa funzione degli alberi nati e cresciuti per caso nella piazzetta del paese: si muovono, ma solo aspettando i cambiamenti delle stagioni; crescono, aspettando la fine della linfa vitale; sono delle comparse veloci, delle figure prese dai quadri di Giacomo Balla.

R: Sai che ieri ero in coda per il vaccino e nella massa furiosa (data l’attesa estenuante), c’era una signora anziana del mio piccolo paese seduta, con le strofe di una canzone tra le mani: a un certo punto per ingannare l’attesa inizia a cantare (probabilmente brani della sua tradizione), a cantare per sé. Nessuno si era accorto di lei: era come se avesse un’aura piena di energia che la allontanasse dal mondo. Se decidi di rimanere, devi aiutare l’anziana ad alzare la voce e far risuonare l’eco delle sue parole, puoi sentirti parte di qualcosa. Se rimani e la ignori sei come quelli in coda che attendono infastiditi il proprio turno. Oppure puoi andare via e ricercare la voce inascoltata di altre signore anziane e decidere di imparare e intonare, così, nuove canzoni.

Una piccola comunità può resistere se chi resta riesce a dare un senso alla sua permanenza. R e P si interrogano sulle loro scelte relative alla fuga e alla possibilità di rimanere all’interno della loro comunità.

R: Secondo te ci vuole più coraggio a restare o a lasciar andare? È difficile scegliere. Come quando sei in una relazione complicata, qual è la scelta che implica più coraggio? Non mi dire “essere se stessi” perché non vale.

P: Ricordi l’intervento di quel giornalista, lo scorso sabato, alla presentazione del nuovo blog? Disse che la cosa più importante è avere coraggio. Dopotutto chi decide di andare via probabilmente sta compiendo un’azione di fuga premeditata da tempo, paradossalmente avrebbe molto più coraggio se rimanesse.

R: Hai mai pensato che forse la cosa giusta sarebbe stata quella di rimanere?

P: Sinceramente? No. Perché rimanere? Cosa c’è in quel posto? Cosa può offrirmi? Che futuro potrò mai avere in un luogo privo di stimoli?

R: Privo di stimoli? Non credo che io, te e altri milioni di ragazzi abbiamo deciso di abbandonare la nostra realtà perché fosse priva di stimoli. L’abbiamo fatto per moda, necessità, sopravvivenza, egoismo.

P: In quel caso è un dovere essere egoisti. Se non hai una motivazione forte che ti leghi alle tue radici, perché rimanere? Perché pensare alle tremila persone che per 18 anni non hanno fatto altro che parlare di te, invece che con te? È asfissiante.

R: Tu invece, hai mai provato a conoscere fino in fondo le storie di quelle persone? Hai mai provato a pensare perché abbiano deciso di rimanere e di lasciar perdere la voglia di fuggire?

P: No, non l’ho mai fatto, e non credo che, se lo avessi fatto, avrei cambiato la mia idea. Andare fuori è l’unico modo che ho avuto e che ho per riuscire ad esprimere la mia identità, chi sono, che faccio e cosa voglio.

R: Sai che su Facebook ho letto una frase che mi ha fatto riflettere? E non è la solita citazione di Bukowski sulla bellezza interiore a cui non crede nemmeno lui. La citazione è di “Rabbia” di Chuck Palahniuk e recita: “Il motivo principale per cui la gente se ne va dai paesini di provincia […] è perché così poi puoi sognare di tornarci. E il motivo per cui chi resta è per sognare di andarsene. Con questo Rant voleva dire che nessuno è felice. Da nessuna parte.”

P: Per quanto mi riguarda non ha senso riprendere frasi dagli autori che parlano dei paesi di provincia, come quella di Cesare Pavese ricondivisa da tutti i fuorisede che si accingono ad andare via, fuori dal proprio paesino: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via…” Io non condivido queste parole. Non ho scelto io di nascere qui, il mio mondo non ha barriere, perché dovrei limitare la mia voglia di varcare la soglia? Io appartengo a ciò a cui voglio appartenere.

R: Lo sai che l’altro giorno ho aperto su Instagram una diretta in cui Michela Murgia e Chiara Valerio presentavano il libro di Mario Desiati, “Spatriati”? Stavano affrontando il tema della provincia. A un certo punto Murgia afferma: “Tu puoi uscire dalla provincia, ma la provincia non potrà mai uscire da te.” Che è una frase banalissima, ma è la verità. I nostri gesti, le nostre azioni, i nostri occhi si sono impregnati di abitudini e situazioni legate al nostro piccolo gruppo sociale, e per quanto tu possa essere trasgressivo e al di fuori dalle regole, la tua base sarà sempre quella, che non è una condanna. Ma un punto di partenza. Poi una cosa che non capisco di quello che dici è: Voglio uscire, andare fuori. Ma fuori da dove? L’hai detto tu: i confini sono delle costruzioni immaginarie dell’uomo per delimitare degli spazi, tu non ce li hai. Non è varcando una regione o uno stato che ti porterà a definirti, la definizione del tuo io dipende dalle cose che fai, da quelle che leggi e da quelle che vedi.

P: Non pensi che, però, uscendo da qui, abbiamo avuto l’occasione di conoscere e capire realtà che non avremmo mai considerato?

R: Questo è un dato di fatto, ma l’apertura mentale non è direttamente proporzionale alla scelta di vivere fuori. È vero, hai la possibilità di vedere di più, ma accettare e condividere la diversità non è automatico.

P: Potrei essere d’accordo, però credo che rimanere non debba essere una costrizione e non debba costituire un senso di colpa. La mia identità si è formata per un certo periodo in un posto in cui non ho avuto la possibilità di scegliere, quindi è legittimo che a un certo punto io abbia la voglia di crearmi uno spazio mio, deciso da me.

R: Pensala così: il posto in cui sei nato è una delle tue identità, ognuno di noi ne ha mille, nessuno è mai sempre uguale a sé stesso, tutti cambiano in base alle proprie esperienze. Perché negare una parte di te? Il fatto che tu abbia lasciato qualcosa, anche la più piccola, un ricordo, un’azione, nessuno può cancellarlo, forse bisogna solo accettarlo. Un po’ come quando ti capita di fare un tatuaggio da imbecille a quindici anni: a un certo punto ti vergogni, però poi realizzi che quel gesto rappresenta un periodo della tua vita, di divertimento magari, di cose superficiali, però esiste.

P: Va bene, forse hai ragione, ma allora perché dovremmo rimanere? Una volta accettata la mia origine, al di là di tutte le frasi auliche di questo mondo, io devo fare ciò che sento. E la mia serenità non può essere danneggiata da circostanze ormai insopportabili. Ognuno di noi ha una storia che nessuna frase potrà mai rappresentare.

R: Non lo so, a volte mi interrogo su ciò che avrei potuto fare e su quello che non faccio. Si tratta solo di essere nel nostro caso, non di agire, perché non ci crediamo fino in fondo.

P: Si, il punto è che rimanere non ha senso se non è funzionale: a cosa serve essere 3001 invece di 3000 se quel numero in più serve solo ad occupare spazio?

R: Stavo proprio leggendo un libro di Jonathan Safran Foer, “Possiamo salvare il mondo prima di cena”: un capitolo si intitola Be leaving, believing, be living (Andarsene, crederci, essere vivi) e racconta dello sterminio degli ebrei in relazione alla conoscenza e alla consapevolezza. “Come dice il regista Claude Lanzmann nel prologo a Il rapporto Karski, il suo documentario sulla missione di Karski in America: << […] A Raymond Aron, che era fuggito a Londra, fu chiesto se non fosse a conoscenza di quello che stava succedendo all’epoca nell’Est. Rispose: lo sapevo ma non ci credevo, e siccome non ci credevo, non lo sapevo.” Sto pensando che, quindi, rimanere deve avere un senso. Se non ci credo abbastanza, è meglio trovare la propria missione altrove.

P: Si, troppo facile dire: rimanete, perché andate via? Ma chi fa queste domande, si è mai chiesto cosa stia facendo lì? In quella piccola comunità? Come contribuisca a valorizzarla? Se resti e non ci credi, hai la stessa funzione degli alberi nati e cresciuti per caso nella piazzetta del paese: si muovono, ma solo aspettando i cambiamenti delle stagioni; crescono, aspettando la fine della linfa vitale; sono delle comparse veloci, delle figure prese dai quadri di Giacomo Balla.

R: Sai che ieri ero in coda per il vaccino e nella massa furiosa (data l’attesa estenuante), c’era una signora anziana del mio piccolo paese seduta, con le strofe di una canzone tra le mani: a un certo punto per ingannare l’attesa inizia a cantare (probabilmente brani della sua tradizione), a cantare per sé. Nessuno si era accorto di lei: era come se avesse un’aura piena di energia che la allontanasse dal mondo. Se decidi di rimanere, devi aiutare l’anziana ad alzare la voce e far risuonare l’eco delle sue parole, puoi sentirti parte di qualcosa. Se rimani e la ignori sei come quelli in coda che attendono infastiditi il proprio turno. Oppure puoi andare via e ricercare la voce inascoltata di altre signore anziane e decidere di imparare e intonare, così, nuove canzoni.

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