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mercoledì, 24 Aprile, 2024

L’italiano non è una lingua per donne. Considerazioni sugli stereotipi di genere

Lo scorso luglio il Senato bocciava la possibilità di adottare nel Regolamento, la differenza di genere nella comunicazione istituzionale scritta.

Quindi, si continuerà a scrivere “Onorevoli senatori”, “I componenti della Commissione”, “Il segretario” e non “Onorevoli senatori e senatrici”, “I componenti e le componenti”, “Il segretario e la segretaria” e via così. Il maschile come “neutro” per indicare ruoli e funzioni ricoperti in realtà da uomini e donne, ben sapendo tutti, fin dalle elementari, che la lingua italiana ha solo due generi: il maschile e il femminile.

Il neutro non esiste.

“Dopo quasi vent’anni di analisi femministe, di lotte di emancipazione e di liberazione che hanno indubbiamente inciso sull’assetto sociale e politico e hanno influito sulla psicologia delle persone, il linguaggio della stampa e la lingua quotidiana non si sono sfortunatamente adeguate ai cambiamenti avvenuti”. Con queste parole si terminava l’analisi svolta nel 1986 sul tema del sessismo nella lingua italiana, condotta dal gruppo di ricerca diretto da Alma Sabatini. A distanza di più di trent’anni da quella ricerca, queste stesse parole possono validamente essere riproposte per descrivere la condizione attuale. Esiste e persiste un divario ancora assai marcato tra le rappresentazioni dei generi: un divario che coinvolge tutti i settori, dal gap salariale fino a quello delle parole.

Lo stereotipo che resiste dal punto di vista linguistico è “si è sempre fatto così” e “che i problemi delle donne sono altri”.

È proprio intorno al concetto di stereotipo di genere che bisogna riflettere, perché se è vero che «il linguaggio crea il mondo che abitiamo, crea anche chi lo abita».

Gli stereotipi rappresentano immaginari collettivi che influenzano la percezione di ciò che è davanti a noi e, spesso, ne escludono parti essenziali. Ed è spesso la donna a essere discriminata.

Nel campo della relazione tra i generi il ricorso a stereotipizzazioni e luoghi comuni è massiccio e pervasivo; questo perché nel linguaggio quotidiano si sono consolidati dei “giudizi” attraverso delle frasi fatte, gli stereotipi appunto, usati in maniera automatica e acritica che trovano il loro fondamento nell’ampia diffusione e nell’essere tramandati continuamente nel tempo. Proprio per questa capacità semplificatoria di cui sono dotati, non sorprende che anche oggi la nostra cultura ne sia intensamente intrisa.

L’idea che le donne fossero individui appartenenti a una categoria non solo diversa ma inferiore a quella dei maschi, e di conseguenza dovessero godere di minori diritti di questi e dovessero dipendere da questi, ha radici lontane, nacque infatti in Grecia, dove venne formulata, per la prima volta, in un celebre mito: quello di Pandora. Nel raccontare la storia di pandora, Esiodo dice che da lei discende «il genere maledetto, la tribù delle donne».

Questa modalità disprezzante continua ancora oggi, (non con questi termini) ma evidenzia come i luoghi comuni e gli stereotipi operino come vere e proprie categorie valutative capaci di produrre conseguenze rilevanti nel mondo reale delle relazioni.

Tutto questo passa attraverso il linguaggio, dove i termini “uomo” “donna” sono oppositivi e il genere femminile è considerato secondario rispetto al maschile, tant’è che le narrazioni, i discorsi sono sempre declinati al maschile-neutro e, in questa pretesa e falsa neutralità che riconduciamo al maschile, si realizza tacitamente la cancellazione del femminile.

Questa gerarchia, tra maschio e femmina non ha, infatti, cessato di produrre i suoi effetti e la si ritrova intatta e integra nella gran parte degli stereotipi, dei luoghi comuni: il femminile è rappresentato in termini di debolezza e limitatezza, vedi l’espressione di uso comune la donna è il sesso debole!

La nostra lingua, i dialetti sono pieni di parole e di questi modi di dire, e allora perché, si tende a sminuire le rivendicazioni per un linguaggio di genere, quando è attraverso di esso che si attesta il diverso trattamento riservato alle donne?

Non si può allora non riconoscere che la discriminazione linguistica sia alla base della discriminazione sociale.

Contro queste discriminazioni, il diritto può giocare un ruolo rilevante, perché i cambiamenti linguistici avvengono lentamente e non sempre sono spontanei, per questo la dimensione normativa può essere d’aiuto per indirizzare i comportamenti linguistici, le pratiche discorsive e le rappresentazioni a esse sottese, affinché la parole cessino di essere pregiudicanti.

La decostruzione della struttura patriarcale in tutti i settori, può essere agevolata se nei luoghi in cui si esercita il potere si cominci ad usare un linguaggio che utilizzi la declinazione al femminile, legittimando così la posizione paritaria della donna.

Abbiamo bisogno che la parità di genere sia sostanziale.

Abbiamo bisogno che l’italiano sia una lingua per donne.

Lo scorso luglio il Senato bocciava la possibilità di adottare nel Regolamento, la differenza di genere nella comunicazione istituzionale scritta.

Quindi, si continuerà a scrivere “Onorevoli senatori”, “I componenti della Commissione”, “Il segretario” e non “Onorevoli senatori e senatrici”, “I componenti e le componenti”, “Il segretario e la segretaria” e via così. Il maschile come “neutro” per indicare ruoli e funzioni ricoperti in realtà da uomini e donne, ben sapendo tutti, fin dalle elementari, che la lingua italiana ha solo due generi: il maschile e il femminile.

Il neutro non esiste.

“Dopo quasi vent’anni di analisi femministe, di lotte di emancipazione e di liberazione che hanno indubbiamente inciso sull’assetto sociale e politico e hanno influito sulla psicologia delle persone, il linguaggio della stampa e la lingua quotidiana non si sono sfortunatamente adeguate ai cambiamenti avvenuti”. Con queste parole si terminava l’analisi svolta nel 1986 sul tema del sessismo nella lingua italiana, condotta dal gruppo di ricerca diretto da Alma Sabatini. A distanza di più di trent’anni da quella ricerca, queste stesse parole possono validamente essere riproposte per descrivere la condizione attuale. Esiste e persiste un divario ancora assai marcato tra le rappresentazioni dei generi: un divario che coinvolge tutti i settori, dal gap salariale fino a quello delle parole.

Lo stereotipo che resiste dal punto di vista linguistico è “si è sempre fatto così” e “che i problemi delle donne sono altri”.

È proprio intorno al concetto di stereotipo di genere che bisogna riflettere, perché se è vero che «il linguaggio crea il mondo che abitiamo, crea anche chi lo abita».

Gli stereotipi rappresentano immaginari collettivi che influenzano la percezione di ciò che è davanti a noi e, spesso, ne escludono parti essenziali. Ed è spesso la donna a essere discriminata.

Nel campo della relazione tra i generi il ricorso a stereotipizzazioni e luoghi comuni è massiccio e pervasivo; questo perché nel linguaggio quotidiano si sono consolidati dei “giudizi” attraverso delle frasi fatte, gli stereotipi appunto, usati in maniera automatica e acritica che trovano il loro fondamento nell’ampia diffusione e nell’essere tramandati continuamente nel tempo. Proprio per questa capacità semplificatoria di cui sono dotati, non sorprende che anche oggi la nostra cultura ne sia intensamente intrisa.

L’idea che le donne fossero individui appartenenti a una categoria non solo diversa ma inferiore a quella dei maschi, e di conseguenza dovessero godere di minori diritti di questi e dovessero dipendere da questi, ha radici lontane, nacque infatti in Grecia, dove venne formulata, per la prima volta, in un celebre mito: quello di Pandora. Nel raccontare la storia di pandora, Esiodo dice che da lei discende «il genere maledetto, la tribù delle donne».

Questa modalità disprezzante continua ancora oggi, (non con questi termini) ma evidenzia come i luoghi comuni e gli stereotipi operino come vere e proprie categorie valutative capaci di produrre conseguenze rilevanti nel mondo reale delle relazioni.

Tutto questo passa attraverso il linguaggio, dove i termini “uomo” “donna” sono oppositivi e il genere femminile è considerato secondario rispetto al maschile, tant’è che le narrazioni, i discorsi sono sempre declinati al maschile-neutro e, in questa pretesa e falsa neutralità che riconduciamo al maschile, si realizza tacitamente la cancellazione del femminile.

Questa gerarchia, tra maschio e femmina non ha, infatti, cessato di produrre i suoi effetti e la si ritrova intatta e integra nella gran parte degli stereotipi, dei luoghi comuni: il femminile è rappresentato in termini di debolezza e limitatezza, vedi l’espressione di uso comune la donna è il sesso debole!

La nostra lingua, i dialetti sono pieni di parole e di questi modi di dire, e allora perché, si tende a sminuire le rivendicazioni per un linguaggio di genere, quando è attraverso di esso che si attesta il diverso trattamento riservato alle donne?

Non si può allora non riconoscere che la discriminazione linguistica sia alla base della discriminazione sociale.

Contro queste discriminazioni, il diritto può giocare un ruolo rilevante, perché i cambiamenti linguistici avvengono lentamente e non sempre sono spontanei, per questo la dimensione normativa può essere d’aiuto per indirizzare i comportamenti linguistici, le pratiche discorsive e le rappresentazioni a esse sottese, affinché la parole cessino di essere pregiudicanti.

La decostruzione della struttura patriarcale in tutti i settori, può essere agevolata se nei luoghi in cui si esercita il potere si cominci ad usare un linguaggio che utilizzi la declinazione al femminile, legittimando così la posizione paritaria della donna.

Abbiamo bisogno che la parità di genere sia sostanziale.

Abbiamo bisogno che l’italiano sia una lingua per donne.

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